Scrivere: dai fischi alle pesche.

Ho iniziato a tredici anni. La firma, inizialmente, era per logica e per legge quella dei miei genitori.
Mi ricordo il giorno che il preside ha chiamato mia madre per dirle che avevo vinto. Ma vinto cosa? Signora, ma il concorso. Quale concorso, oddio! Signora non immagina quanto siamo felici è successo che bla bla bla.

Io quel giorno non ero a scuola perché odiavo andare a scuola e pur di saltare un solo giorno di scuola sarei stata disposta a fare qualsiasi cosa, avrei preferito, ripeto, correre scalza per tutta la 125 nel mese di luglio a mezzogiorno. Ero dei più bravi e lo sarei stata ancora di più senza frequenza obbligatoria, mi dicevo nei miei sogni. Per me andare a scuola significava più che altro subire i fischi e le risate dei compagni più grandi durante l’ora di educazione fisica, quando le classi spesso si univano e si correva tutti assieme in cerchio, attorno al campo. Se pioveva troppo e la palestra si allagava si faceva teoria e davanti alla tavola delle calorie, sul libro che ancora conservo, c’era sempre qualcuno che chiedeva quanto sarei sopravvissuta senza cibo visto che ero una maledetta cicciona.

La scrittura è diventato un ambito rifugio. Quando tornavo a casa, incoraggiata da coloro che mi riempivano di complimenti per quel grande successo anche se io ero davvero piccola -non di dimensioni ma di età-, mi rinchiudevo nella mia stanza e mi mettevo davanti al pc nuovo a scrivere per tutto il pomeriggio. La sera facevo i compiti di francese e matematica, l’amavo la matematica, anche se non la capivo. Assente Avere, Questa storia, Miraggio, Primavera, quante poesie sono nate su quello schermo, dettate dalle dita che inseguivano velocissime i tasti. Mi sembrava di volare quando i cavolacci miei e tutta quella tristezza che covavo dentro diventavano versi che poi facevano commuovere chi li leggeva, e me lo confidavano col cuore in mano, si raccontavano, chi leggeva poi era lui stesso a diventare protagonista di quegli scritti. “Sai, è successo anche a me”, iniziavano. Quanti rapporti sono nati così. Quante amicizie di una sera! Me lo chiedo ancora che volto hanno assunto quei ragazzini come me che ai concorsi aspettavano di salire sul palco, a Roma, davanti alle telecamere della Rai, dopo un viaggio di venti ore. Ci davamo coraggio e se chi presentava sbagliava la pronuncia del cognome ridevamo e facevamo il gesto di fregarsene alla malcapitata.
“Maria Luisa…”
“Veramente io mi chiamo Luisa Maria” correggeva lei, e noi tutti a ridere, dentro i nostri tredici anni che davanti a quelle telecamere e le luci accecanti dei fari ci facevano sentire adulti, in realtà sembravamo incredibilmente più piccoli dentro quel mondo.

Quando tornavo a casa respiravo ancora l’aria dei mille progetti che avevo voglia di iniziare. A tredici anni hai la certezza di avere abbastanza tempo davanti per fare tutto.
Ho continuato a scrivere, ma ho smesso di ingrassare e essere derisa dal mondo intero. Le mie poesie sono diventate più tristi. Più avevo fame, più la gente si complimentava. Scrivevo moltissimo, completavo racconti e poesie ogni giorno e la sera quando andavo a dormire sognavo il mio cognome sul dorso di un libro della prestigiosa Einaudi.

A 16 anni avevo trenta chili in meno, una fame da morire e una montagna di file word dentro una cartella nascosta del pc, ma il mio cognome abitava dentro antologie di tiratura scarsa, mi ero arresa all’idea di tentare la pubblicazione di quel romanzo scritto nell’estate di tre anni prima, lo odiavo e non lo sentivo più mio, ero tentata persino di cancellarlo, “…che tanto chi vuoi che lo trovi in una cartella nascosta e denominata con un codice lunghissimo? Se crepo, va pure perso. Un piatto di carbonara, ecco cosa vorrei adesso. Ma sono già a 480 calorie: domani mangio solo una pesca e finisco di scrivere quel saggio sul teatro.”

Gli anni sono passati, e anche tanti. Adesso la carbonara la mangio, e il mio cognome è scritto sul dorso dei libri. Ma il resto lo racconto in un altro post!

Come si inizia a scrivere un libro p.1

perchèscrivere

Mi vengono sovente poste alcune domande inerenti la scrittura, specialmente dopo il corso che ho tenuto lo scorso inverno oserei dire che si sono triplicate (ringrazio chi ha acquistato il mio libro, ancora oggi mi sorprendo sempre quando ricevo foto di quelle pagine a cui ho lavorato per anni interi) e mi piacerebbe rispondere a queste in un articolo breve ma abbastanza preciso. Ad ogni modo è sempre possibile farmene di nuove su Instagram o in altri modi, insomma come ritenete più comodo.

Perchè scrivi?- questa domanda in realtà mi è stata fatta poche volte, ma mi è necessario ricollegarmi ad essa per spiegare gli altri relativi concetti che sono puramente conseguenti. La ragione pura e semplice di chi sente l’esigenza di scrivere è fine a tale stato: scrivere diventa un’esigenza, e spesso neppure si sapeva di averla. Io ho iniziato a scrivere a nemmeno tredici anni, e se oggi il mio nome compare in numerose antologie ho solo da ringraziare la mia professoressa di lettere delle medie che ci ha spinti ad approcciarci alla poesia, componendo testi che esprimevano talvolta il disagio della nostra allora adolescenza, altre volte la freschezza di quella gioventù che avremmo rimpianto dopo poco. Infine, tentativi di applicare le regole studiate sui libri e che tanto facevano scena tra le righe dei grandi autori italiani.
Io credo di scrivere soprattutto perchè mi serve, mi fa stare bene, ma anche per lasciare dal mio piccolo un segno, un qualcosa in questo mondo. Per raccontare pezzi di giorni e sorrisi che a voce non hanno la medesima magia. O almeno, ci provo!

Come faccio a scrivere un libro?- non è una domanda semplice a cui rispondere, e spiego il motivo: dal momento che ci si chiede questo, molto probabilmente non si ha granchè da dire, perchè di solito a questa segue la domanda “ma cosa devo scrivere di preciso?” e allora non c’è molto da aggiungere. Come sosteneva un famoso autore, si deve scrivere non perchè si vuole dire qualcosa, ma perchè si ha qualcosa da dire. Nel 99% dei casi i romanzi che leggiamo sono frutto della rielaborazione di un evento o di una sensazione ed è questa che si vuole trasmettere ad eventuali e futuri lettori. Quando ha scritto quello che è diventato il soggetto del film Amabili Resti, con Rachel Weisz, la scrittrice Alice Sebold si stava ispirando alla propria esperienza di stupro avvenuta anni prima, e da una oserei dire premurosa elaborazione dell’esperienza è nato quello che è diventato uno dei libri più venduti al mondo.

Come fate a scrivere un libro: innanzitutto dovete avere qualcosa da dire, e nessuna vergogna che vi possa censurare, poichè con la rielaborazione -ne parleremo più in là- potete facilmente occultare dettagli troppo evidenti e divertirvi quasi nel mascherare o nello svelare i tratti della vostra storia che più sentite il bisogno di mettere nero su bianco. Tutto questo non avviene qualora riteniate sufficiente tenere un diario, cosa che comunque io consiglio vivamente a coloro che amano la scrittura ma non sanno come iniziare e temono di non avere nulla da dire. Ci sono molti bestseller nati così!

Dovete, punto su cui non transigo, leggere veramente moltissimo: sarebbe giusto dedicare il giusto tempo al romanzo che avete scelto e magari scriverci una nota su un quaderno, per far venir fuori e coltivare il vostro stile, ma anche e soprattutto per confrontarlo con altri autori -date sempre uno sguardo ad autori emergenti, mi riferisco a quelli con pochi libri all’attivo, vi basterà sbirciare sui vari cataloghi delle case editrici-.
In media un buon lettore supera i 36 libri l’anno (sono 3 libri al mese), ma io non credo molto a questi numeri. Se ne leggete solamente 15 ma tra questi rientrano per esempio Guerra e Pace o Infinite Jest, non credo ci sia assolutamente nulla da rimproverare ma anzi soltanto da elogiare!

Insomma: trovate la vostra unica e speciale ragione per scrivere, ossia quel qualcosa che avete da dire. Poi, leggete chi già ce l’ha fatta: i prossimi potreste essere voi!

Forse era giunto il momento di dire qualcosa in più!



Dopo anni di sole poesie, racconti, romanzi brevi e premi conservati nel cassetto, ho aperto un blog nel 2013 e da allora posso dire di aver finalmente iniziato a parlare della vera me di tutti i giorni. 

Mi occupo di contenuti per il web per passione, e pian piano posso dire di stare finalmente ricevendo il riscontro che cercavo. Solo chi si ferma è perduto, e io ferma senza scrivere non posso davvero stare.

Avevo solo 12 anni quando ho scritto la poesia che sarebbe stata pubblicata in un’antologia grazie ad un Premio Nazionale per essere musicata da Stelvio Cipriano, recentemente scomparso.

Successivamente mi sono cimentata nella scrittura del mio primo romanzo, che ho fatto leggere solamente alla mia miglior amica nei primi anni delle scuole superiori e che non ho ancora finito di ricontrollare. Il lavoro più arduo nello scrivere non sta nel buttare giù quell’insieme di parole, frasi, emozioni, ma nel rivedere il tutto trovando il coraggio di tagliare parti che allora ci sembravano avvincenti e che ora quasi ci fanno vergognare.

A dispetto delle mie poesie spesso di natura malinconica e del titolo della prima raccolta, Grandine e Veleno, potete seguirmi su Twitter e Instagram per scoprire anche la parte forse meno nota, ossia quella comica, allegra, sarcastica, autoironica e d’intrattenimento. 

Oltre alla scrittura mi appassionano anche il disegno, l’arredamento, il pianoforte, la fotografia e la letteratura, in particolare quella classica russa e quella contemporanea italiana. Ho la fissa per le lingue straniere, ed essendo anche un’insegnante di inglese per bambini occuparmi del loro studio mi diverte e imparare tutti i giorni anche soltanto una nuova espressione di tedesco, spagnolo, francese o russo mi fa stare bene, mi mantiene attiva e accende in me la voglia di fare sempre di più!

Sto lavorando a due nuovi importanti progetti che spero mi porteranno a breve tra gli scaffali delle vostre librerie, stavolta per davvero e con presentazioni organizzate meglio. Insomma, sono diventata grande!

Studio diritto delle amministrazioni presso la sede nuorese dell’Università di Sassari, e il lavoro che svolgevo gli scorsi anni mi ha rallentato notevolmente davanti alle cattedre dei professori, ma finalmente posso dire che è iniziata la discesa verso la mia corona d’alloro.

Presto verrà stilato un piccolo menu con tutte le rubriche, ormai è giunto davvero il momento di organizzare questo sito come merita. 

Spero i prossimi articoli siano di Vostro gradimento e che continuerete a visitarmi, perché è grazie ai vostri click su queste pagine che i miei sogni stanno prendendo forma tutti i giorni.

Work in progress ❤

Il Blog ultimamente è caduto in disuso, e mi ritrovo davanti alla faticosa scelta da affrontare, ossia è meglio chiuderla qui e aprire un altro progetto o proseguire con questo nonostante qualche piccolo cambiamento nel succo della storia? Se optassi per la prima strada non sarebbe un po’ rinnegare il passato e tutti questi anni di post a cui sono morbosamente affezionata e per i quali nutro un notevole orgoglio? 

Premesso che la mia vita è notevolmente cambiata da qualche mese a questa parte, e quando volto pagina di solito lo faccio completamente, ma del resto questo è il mio lavoro e non si tratta certo del passaggio da Blogger ad architetto o recensore gastronomico  (!), a prescindere dalla frequenza con la quale posso dedicarmici causa università e notebook assente. Ma ho in mente grandi passi per la prima volta, e non ho intenzione di cambiare pubblico o stile. Vi terrò aggiornati. Buona domenica a tutti ❤

Un caffè veloce?

​”I caffè bevuti di fretta”. Come potrebbero non riportarmi alla mente le nostre veloci mattinate invernali, gennaio di gelo che diventava il tepore dei nostri respiri. E la tazzina sempre troppo calda tra le mani. 

Il domani che ci ostinavamo a disegnare ogni mattina a quel tavolo davanti alla tazzina di caffè bollente, si è squarciato, è morto, ammazzato dai nostri dubbi e dalla nostra prepotenza, dal male del nostro ieri, le nostre cicatrici si sono riaperte e hanno iniziato a sanguinare copiosamente.

E in mezzo al disastro ti amo come facevo quei giorni, con la punta delle labbra sporche di caffè e ubriache di baci.

Tutti in Islanda

Premetto di essere affetta da una grandissima e maniacale ossessione (leggi: passione spropositata) per tutto ciò che è neve, freddo, inverno, maglione a trecce, renne, caminetto e abeti. Ergo, sono anche una pazza fanatica del mese più nevicato e dolce che c’è, dicembre.

Di conseguenza, amando tutte queste cose, non potevo che innamorarmi delle foto dei paesi nordici. Quello che recentemente mi ha colpita di più è l’Islanda: non avevo mai pensato a quest’isola fatta di geyser, getti di acqua calda alti decine di metri, che tra l’altro è il Paese europeo meno popolato, con i suoi 322 000 abitanti. Senza contare gli elfi, che pare abitino la penisola di Hornstrandir.

Ricoperta per il 10% di ghiacciai, terra sognante che sembra uscire dalla penna del più romantico dei narratori di favole, sembra veramente avere le sembianze di un altro pianeta, così come ne parla il settimanale #Gioia qualche settimana fa. Il ghiacciaio più grande d’Europa, Vatnajokull, pare abbia una superficie di poco inferiore a quella della nostra meno gelida Umbria.

A quanto pare, visto che io adoro scrivere e leggere non potevo farmi mancare questa perla, gli islandesi non godono soltanto di uno dei sistemi sanitari migliori al mondo, ma sono anche tutti eccellentemente colti (non tutti diventeranno medici, ma scrittori forse sì): leggono come se non ci fosse un domani e sono moltissimi quelli che invece riescono a farsi pubblicare. A proposito, suggerisco “Il rosso vivo del rabarbaro”, di A. Ólafsdóttir.

Quasi l’8% del PIL nazionale è investito nell’istruzione, e se quella obbligatoria e gratuita arriva ai 16 anni, sono molti gli studenti che proseguono il loro percorso terminando l’università.

Io comunque l’Islanda un po’ me la immaginavo come la Norvegia circondata dal mare, nel senso, popolata da alti e biondi mangiatori orgogliosi di salmone dalla polpa grassa e di una tonalità che sfida il corallo. Invece questi nordici lettori accaniti seppelliscono per quasi un semestre della carne di squalo e ne fanno una pietanza tipica, che ingurgitano assieme ad un distillato di patate. Chi non gradisce nutrirsi di pesci che si nutrono di carcasse di barche e persone può optare per un meno aggressivo pesce gatto, per delle cozze o cercare un ristorante italiano dove ordinare della carbonara, una pizza ai quattro formaggi o dei fagioli all’uccelletto. Seriamente: nella capitale, Reykjavik, sembra che i locali dove viene servita la nostra cucina non manchino. Uno di questi è Rossopomodoro (Laugavegur, recensioni decisamente positive). Tra gli altri, Primo Ristorante e la pizzeria Eldofninn.

Sono diversi i siti che organizzano viaggi nella terra dei fuochi, degli elfi e dei lettori assidui: www.islanda.it propone una sfilza di itinerari per tutti i gusti, da quelli individuali a quelli in macchina, da quelli realizzati appositamente per le stagioni fredde a quelli specifici per l’estate.

I prezzi degli alberghi a primo impatto non sembrano bassi, a Reykjavik, la capitale, si può dormire con circa 130 euro al 100 Iceland, e si superano i 300 se si alloggia al Borg.

Il consiglio è quello di dare prima un’occhiata ai numerosissimi siti dove farsi un’idea sia del clima (lunatico), in modo da non avere sorprese una volta arrivato il momento di disfare la valigia in albergo, dei prezzi e dei centri dove alloggiare spendendo sicuramente qualcosa in meno e senza però farsi mancare l’immersione in questa magica atmosfera nordica.

Estratto dalla raccolta “Lettere all’amante”

[luogo], 29 luglio 2015

Perfetto,

quanto e come t’aspetto!
Non hanno ancora suonato le nove le nostre campane che già mi ritrovo dietro il banco ad aspettare di guardarti passare.

Come desidero qualcosa di più.

Non mi limiterò alla banale richiesta di un tuo elemosinato sorriso, perchè sono sempre l’inaccontentabile e sognante giovane (forse troppo? Sarà mica quello sciocco numero a frenarti?) che trascorre ormai estati ed inverni nell’attesa di quel “qualcosa di più” che tanto stenta ad arrivare.

Eppure mi ritrovo ad amare follemente ognuno di questi logoranti attimi nel limbo, senza sapere più nè se vale ne sè no patire così atrocemente e dolcemente, silenziosamente con le labbra ma rumorosamente con quel corpo che ho ripreso a maltrattare, e a cui mancano diversi chili e centrimetri dal nostro ultimo incontro.

Brucia incredibilmente questo muto sperare, agonia dell’incredulità, tepore di lacrime che risalgono in superficie, per poi piovere ancora, bagnandomi le occhiaie per lavare via almeno il viola della sofferta finta di un sorriso che aspetto di donarti.

Sono proprio sciocca, eh?

A volte soffriamo da morire senza il minimo ritegno, e di ciò riusciamo quasi ad andarne fieri.

T’aspetto,

B.