Un caffè veloce?

​”I caffè bevuti di fretta”. Come potrebbero non riportarmi alla mente le nostre veloci mattinate invernali, gennaio di gelo che diventava il tepore dei nostri respiri. E la tazzina sempre troppo calda tra le mani. 

Il domani che ci ostinavamo a disegnare ogni mattina a quel tavolo davanti alla tazzina di caffè bollente, si è squarciato, è morto, ammazzato dai nostri dubbi e dalla nostra prepotenza, dal male del nostro ieri, le nostre cicatrici si sono riaperte e hanno iniziato a sanguinare copiosamente.

E in mezzo al disastro ti amo come facevo quei giorni, con la punta delle labbra sporche di caffè e ubriache di baci.

Di domenica

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In 23 anni e mezzo ho collezionato più di un migliaio di domeniche.
Ho alternato domeniche nelle quali ho dormito sino a mezzogiorno perché ammettere a me stessa di esistere e dunque di dover compiere azioni come aiutare a tagliare l’insalata, finire i compiti di italiano o pettinarmi era davvero una scocciatura, a domeniche nelle quali mi alzavo presto e preparavo allegramente le mie quattro cianfrusaglie e partivo insieme ai miei verso una lunga giornata al mare, di quelle che alle undici e mezzo hai già fame e stai ingurgitando panini con i pomodori secchi, in costume da bagno, nel bel mezzo di una pineta dimenticata da Dio, oltre che dalla Guardia Forestale.

 

Le domeniche hanno iniziato ad avere un sapore diverso con l’adolescenza. Forse perché quando vai alle superiori di solito di becchi una cotta colossale a causa di cui ti ritroverai a maledire, in piena notte, l’aver snobbato le domeniche dell’infanzia dove al massimo dovevi aiutare a tagliare l’insalata.

La domenica quel tipo che dopo dieci anni ti accorgerai di valutare come un verme bicolore dotato di parola (oddio, mica tanto…non è detto. Non fateci caso), non lo vedi.

Certo, lui non ti vede nemmeno tutti gli altri giorni, anzi non sa che tu esisti, magari nei suoi sogni vuole proprio una come te, una muta impedita che lo fissa di nascosto dietro ad un albergo pieno zeppo di formiche prima che suoni la campanella delle otto e mezza, ma non sa che tu esisti, proprio perché passi sei giorni la settimana nascosta dietro quel cazzo di albero!
Se avesse saputo della tua esistenza magari ti avrebbe invitato a mangiare un gelato la domenica pomeriggio (buona fortuna: è più o meno come quando il tipo che mi piaceva mi ha detto di andare a casa sua il giorno di Natale, per portargli il regalo, peccato che lui non ci fosse e che mi abbia aperto la mamma, che presumo mi avrebbe volentieri sgozzato e seppellita nel frutteto), nel mese di gennaio, sai che romantico congelarsi la lingua con una crema alla stracciatella mentre tu vorresti che ne so, un dannato bacio? Che tizio rincoglionito che ti piace, ma dai!

 

Le domeniche sono diventate una saporita pausa dal mondo all’epoca dell’università, o comunque dopo il diploma, visto e considerato che io ho anche preso un anno sabbatico, condito con domeniche atroci sempre per un tizio, uno di quelli che la vostra esistenza ce l’ha bene in mente per cinque giorni la settimana, ma il sabato non esce perché la domenica VA AL CAMPO. A GIOCARE. E NON STO PARLANDO DI TIZI FIDANZATI CON LA SERIE A.

 

La domenica non mi alzo alle cinque e mezza del mattino per andare a lavorare a studiare un po’ prima di prepararmi. Mi alzo un paio d’ore più tardi, faccio colazione con calma, leggo qualche rivista, e nel pomeriggio studio. La mattina mi dedico ai libri solo se so di avere impegni importanti nel pomeriggio e alla sera, o se gli esami da preparare sono più di uno. Insomma, la domenica me la prendo con calma, anche se continuano ad essercene che proprio eliminerei dal calendario!

 

Voi la domenica cosa fate?

Aspettando Il gatto con gli stivali, coccolo il mio!

Vi scrivevo con il gatto accucciato sulle mie ginocchia, ma si è ribellato al mio pomeriggio da blogger divoratrice di tiramisù rigorosamente fatto in casa, il che significa che ha cominciato a graffiarmi e a saltare sulla scrivania, facendo saltare a loro volta: una boccetta di profumo, un portafoto, un trousse di trucchi, un deodorante e tutto ciò che stava in piedi attorno a questi. Soddisfatto, è venuto giù e si è addormentato sul tappeto di pelo, non senza aver litigato, appunto, con i pelucchi.

La lotta continua con questo ciccione, affettuoso, divoratore di tiramisù rigorosamente fatto in casa, vanitoso micio mi ha spinta ad ordinare, in previsione del prossimo lunghissimo inverno, una dozzina di libri dalla Hoepli. Tra questi, oltre a “Il gatto con gli stivali”:

  • Che pasticcio, Bridget Jones (e qui viene fuori che non sono una classicista come molti credono, o meglio, a volte do la precedenza a letture ironiche e che mi faranno ridere), si sa, mai leggere Austen o Dickens quando si è in crisi e l’unico compagno notturno è il piumone.
  • Le notti bianche (eh? Cos’ho scritto trenta secondi fa? Non mi ricordo più, il gatto si è mangiato le mie meningi per merendina)
  • Martin Eden (Vi confesso: dapprima sono rimasta affascinata dalla copertina, che mi rimandava a certi ricordi che non sto a raccontare qui, ogni tanto i cazzi miei li tengo nascosti anche io,sapete??Detto ciò, vi darò un indizio nei post del prossimo mese), che non conoscevo ma la trama mi ha rapita appena l’ho letta: sarà che c’entra il mare, sarà che vi rientra il sogno di diventare scrittori, ma sarà tra i primi che leggerò.
  • Scarface (No cazzo, non tiriamo in ballo la storia degli italiani-tutti-mafiosi: ero curiosa. Volevo leggere un libro diverso, non la solita storia sciapa, o ottocentesca: qualcosa sì retrò, ma che mi dipingesse un mondo completamente estraneo, se non raccontato vagamente dalla cronaca nera)
  • Via Chanel n.5 (sono troppo curiosa, mi ripeto, ma voglio divertirmi. Dopo Martin Eden, che so mi farà passare notti insonni, anche a causa della copertina, avrò bisogno di ridere), se avete una 2.55 a casa che non usate più per andare a fare spese al mercatino del pesce, potete spedirmela.
  • Una stanza tutta per sè (Virginia Woolf l’ho letta con l’Orlando, ma il tema della scrittura, visto che siamo in tempo di concorsi, mi ha chiesto di comprarlo e leggermelo tutto d’un fiato)
  • Wintergirls (a breve la pagina per la battaglia contro i disturbi alimentari verrà aggiornata, visitatela e lasciate qualche commento, è una causa importante).

Al momento sto leggendo “Io viaggio da sola” di Maria Perosino.
Anche il tema del viaggio mi riporta a ricordi scomodi. Che probabilmente però mi daranno la giusta ispirazione. A voi il tema del viaggio, cosa suscita? Malinconia, spensieratezza, divertimento, nostalgia? Anche voi avete una meta nel cuore che non sostituireste mai?Parliamone nella pagina Facebook del blog!

Dopo questo post poco ironico, mi concederò un po’ di musica deprimente, dopotutto, con quello che ho speso per questi libri, che cazzo ho da ridere?

Grazie mille per le visite, e buona serata a tutti!

Wake Me Up When September Ends

Buona domenica e buon inizio di Settembre a tutti. Come state passando questa domenica? Come avete reagito al fatto di dover strappare una pagina dal calendario stamattina? Consolatevi: io non ho un calendario, ad esempio.

Prima di tutto vi spiego, io ho un’allergia piuttosto forte al primo giorno di questo mese che è un po’ un adolescente irrequieto, né carne né pesce, fa ancora troppo caldo per sfoggiare le nuove felpe della Nike ma troppo freddo per dormire in soggiorno con l’aria condizionata, la sottoveste di Intimissimi immaginando che al vostro fianco ci sia il Dottor Stranamore di Grey’s Anatomy, Insomma, per dirla fra noi, che non si sappia in giro: fa un clima di merda a Settembre, specie dove abito io, in Baronia, in una cittadina intrappolata dentro qualche montagna blu e bianca e con le campane che suonano a festa tutto il giorno anche quando non c’è un cazzo da ridere, hai finito il sale e non vuoi uscire a comprarlo perchè i tuoi capelli sono unti, il gatto ha la dissenteria e non hai voglia di metterti le scarpe. Inoltre, a Settembre ti ritrovi sempre indeciso se mettere le ciabattine magenta che usavi per andare in spiaggia a Berchida o gli scarponi da trekking della gita in Trentino. Ho risolto il tutto portando le All Star dodici mesi l’anno, prendendo 27 volte il raffreddore ogni stagione e prima o poi avrò i piedi piatti. Comunque.

Per me Settembre significava l’inizio della scuola, quando ero bambina dunque piangevo perchè non volevo fare i compiti di matematica. A quindici anni quando dovevo andare alle superiori piangevo lo stesso perchè dovevo tornare a scuola e avrei guardato dodicenni fuori dal vialetto di casa che si slinguazzavano appassionatamente. Stupidi amori estivi.

Più di una volta mi sono svegliata il primo Settembre e ho premuto violentemente il naso sul cuscino, sperando di riaddormentarmi e risvegliarmi ad Ottobre, senza accorgermi che l’unica cosa che potevo ottenere, al limite, era un setto nasale da operare. Quando i Green Day, il mio gruppo preferito, cantava questa canzone, io mi truccavo come loro, mi vestivo come loro, NON cantavo come loro. Avevo dodici anni e non slinguazzavo nessuno, ma Settembre significava tornare a scuola e fare non solo i compiti di matematica, ma anche quelli di educazione musicale e antologia (le medie dei primi anni duemila…).

Se anche voi odiate Settembre come me, il vostro ragazzo è uno stronzo e non vi piacciono i Green Day, ascoltatevi 29 Settembre di Battisti, i fazzoletti sono nel primo cassetto a destra.

 

La ballata delle trofie

Lo so che a quest’ora (sul desktop sto leggendo che sono le 12.57) dovrei essere in cucina tra i fornelli, ma siccome non sono sposata, non ho intenzione di farlo (che grandissima stronzata: sono gli altri che non hanno intenzione di farlo con me?) e vivo con i miei genitori, ho già pranzato, prima di loro, e dalla mia camera posso ancora sentire il rumore delle pentole dei miei due carissimi che si dilettano tra carne al fuoco e coltelli. Io per il mio nobile pranzetto mi sono limitata a qualcosa di molto più pesante, appetitoso e suggestivo di qualche bistecca: le trofie liguri con il pesto alla genovese. Comprato. E anche le trofie, quelle del pacco verde delle Regionali. Lo so che dovrei imparare a infarinare qualcosa ma sono stata molto impegnata nel pulire la mia camera dalle otto alle nove e mezza, quando sono uscita per andare da mia zia, che mi ha drogata di frutta, ho salutato mia mamma con un “comprami il pesto”.

Il punto è che oggi avevo bisogno di viziarmi. Esatto: una giornata di merda. Mi sono alzata che avevo le palpebre irreversibilmente incollate tra loro dai residui di mascara, che dalle ciglia si erano allegramente trasferite in tutta la zona a nord dei miei zigomi. Dopo un’accurata pulizia, il caffè versato raffreddato e una tortina alle carote con poche calorie (mi serviva spazio per le trofie) e una pettinata ai miei capelli color catrame denso, mi sono seduta, con aria rilassata. Ho preso coraggio e ho cominciato l’applicazione delle mie lenti a contatto, dopotutto uscire in giro senza occhiali e rischiare di confondere un segnale dello Stop con il fantasma del mio amato Robin Gibb mi sembrava inopportuno. Dopo venti minuti e i capillari degli occhi che mi minacciavano di maltrattamenti, ho deciso che mi meritavo qualcosa di più. Molto più che un pomeriggio a piagnucolare per una testa di cazzo, molto più che uno spruzzo del mio profumo preferito. Molto più che la nostalgica palpazione del mio portafortuna, qualcosa anche da lui usato in precedenza (no simpaticoni, non è un preservativo), dopotutto anche io ho un cuore purtroppo. Ed è allora che ho capito.

Mi meritavo un piatto di pasta col pesto.

Appena quella profumato cremina verde ha sposato le trofie, i miei occhi hanno cominciato a lacrimare. Probabilmente è un’allergia alle nuove lenti. Ogni volta che le mangio è come la prima volta.

LA PRIMA VOLTA.

Dopo aver divorato il mio chilogrammo di trofie alla moda di Genova mi sono ricordata che domani è il primo giorno di Settembre: da domani non solo mi metterò a dieta, di nuovo, ma farò il possibile per rimettermi in carreggiata. Tanto devo ancora prendere la patente: ho tutto il tempo.

Comunque a lui, nemmeno piaceva la pasta col pesto.

L’età dei problemi (come cambiano i tempi…)

Nella vita ci sono tante cose che ci fanno male.

Quando siamo bambini nemmeno ci facciamo caso ai problemi dei più grandi, si sa, a quattro anni il grande dolore è non poter guardare il proprio cartone animato preferito, cadere e sbucciarsi le ginocchia (più per la vergogna che per il povero ginocchio!), nei meno fortunati non poter stare per più tempo con i propri genitori (e questo, già è un problema vero, perchè tristemente se ne risentirà per tutta la vita).

Beh, vi confesserò, quando avevo quattro anni non avevo alcun problema. Giocavo allegramente con i bambini della mia età, ridevo come una matta, andavo in bicicletta (lo ammetto, le mie gite in bicicletta, rigorosamente a quattro ruote, si limitavano al cortile. Oh cielo, pessimo!), al mare, e nonostante fossi totalmente negata nel costruire un dannatissimo castello di sabbia, mi divertivo da morire, facevo amicizia e stavo attenta che non mi rubassero il secchiello e la paletta. Certo, dovrei ripristinare i 10/10 di vista del 1997 per stare attenta a quel livello che non si prendano il tipo che ho adocchiato, e questo è un problema dei vent’anni, ma ci arriveremo gradualmente.

Sei anni: il clamoroso ingresso alle elementari. Dio, io me lo ricordo benissimo, avevo dei capelli oscenamente lunghi, una gonna blu a pieghe e una camicetta bianca. O forse una maglietta, non lo so. Ero la bambola giocattolo che mia mamma non aveva mai ricevuto in dono negli anni Sessanta, e da tale me ne andavo, illusa e felice, in giro per il paese. Anche a scuola, sì.
Il mio problema a sei anni era collezionare amichette che puntualmente mi mandavano a quel paese perchè invidiose dei miei vestitini principeschi e della mia ottima condotta (in realtà anche io volevo saltare da un banco all’altro, correre per il campetto e saltare con la corda in cortile di nascosto, ma ero grassa e non ci riuscivo), e questo è ancora un grosso problema per i bambini del 2013, almeno della stessa gravità del fatto di non avere ancora l’iPhone.

A dodici anni ero già molto più matura, e anche le mie amichette. Che non erano più invidiose di me, forse perchè sfioravo l’obesità e mio padre aveva una macchina con la vernice sbiadita, i miei capelli erano stati tagliati ed erano gonfi, ricci, indomabili. Provateci voi ad andarvene in giro a dodici anni con un’acconciatura stile Cugini di Campagna. Ne deriva che il mio grande problema a quell’epoca, parliamo del 2005, era l’essere tristemente molto POCO POPOLARE, dopotutto la nuova ossessione mi stava già contagiando, quella di emergere dalla massa, non me ne voglia D’Annunzio per avergli soffiato la filosofia di vita, con l’ingenuità dei miei 12 anni, sprecati a guardare video dei Green Day su Music Box. A tutte le ore.

A quindici anni ero magra, mio padre aveva una Lancia K 2,0 e io non dovevo più preoccuparmi nè dei capelli (avevo le extensions), nè della macchina. E nemmeno dei video dei Green Day, che avevo sostituito con i Pink Floyd e Dire Straits perchè erano più “cool” (sì, avevo iniziato a studiare lingua inglese).Peggio che mai: ero persa per un tipo che mi avrebbe volentieri tagliato le gambe, in modo che non potessi più CASUALMENTE ritrovarmi sotto casa sua a mezzanotte, piagnucolante e con i pantaloni zuppi della saliva del suo cane che l’aveva scambiata per un osso giocattolo. Eppure non ero così magra, che diamine.
L’amore adolescenziale: grande problema.

A diciotto anni è arrivato l’incubo della patente: non l’ho ancora presa, e i 21 anni mi stanno salutando laggiù, stanno camminando verso di me non più così lentamente. Ribadisco, pessimo.

Nel 2013 a diciotto anni si deve prendere la patente, perchè vi giuro che stare tutte le volte a chiedere un passaggio alla tua miglior amica (peggio ancora: a mio padre, che non ha nemmeno più la Lancia! Oh, DIO!) per fare un innocuo giro in centro, in via Livorno, ma del tutto casualmente dico, è davvero umiliante. Fatelo. Prendetevi questa benedetta patente.

Dopo il diploma (tragico: 18,19, 20, 23 anni??) il problema esistenziale è:

– Università
-Corso post-diploma
-lavoretto (ce ne sono ancora?)
-nullafacenza a tempo indeterminato (lo so che è gradevole, ma non fatelo)

Io mi sono rifugiata nella quarta opzione, che ho molto ironicamente evitato di scrivere in elenco, e cioè prendermi un anno per decidere.
Questo sì che è un problema, anche perchè mi sono rimasti solo 11 mesi di nullafacenza…Pessimo.