Di domenica

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In 23 anni e mezzo ho collezionato più di un migliaio di domeniche.
Ho alternato domeniche nelle quali ho dormito sino a mezzogiorno perché ammettere a me stessa di esistere e dunque di dover compiere azioni come aiutare a tagliare l’insalata, finire i compiti di italiano o pettinarmi era davvero una scocciatura, a domeniche nelle quali mi alzavo presto e preparavo allegramente le mie quattro cianfrusaglie e partivo insieme ai miei verso una lunga giornata al mare, di quelle che alle undici e mezzo hai già fame e stai ingurgitando panini con i pomodori secchi, in costume da bagno, nel bel mezzo di una pineta dimenticata da Dio, oltre che dalla Guardia Forestale.

 

Le domeniche hanno iniziato ad avere un sapore diverso con l’adolescenza. Forse perché quando vai alle superiori di solito di becchi una cotta colossale a causa di cui ti ritroverai a maledire, in piena notte, l’aver snobbato le domeniche dell’infanzia dove al massimo dovevi aiutare a tagliare l’insalata.

La domenica quel tipo che dopo dieci anni ti accorgerai di valutare come un verme bicolore dotato di parola (oddio, mica tanto…non è detto. Non fateci caso), non lo vedi.

Certo, lui non ti vede nemmeno tutti gli altri giorni, anzi non sa che tu esisti, magari nei suoi sogni vuole proprio una come te, una muta impedita che lo fissa di nascosto dietro ad un albergo pieno zeppo di formiche prima che suoni la campanella delle otto e mezza, ma non sa che tu esisti, proprio perché passi sei giorni la settimana nascosta dietro quel cazzo di albero!
Se avesse saputo della tua esistenza magari ti avrebbe invitato a mangiare un gelato la domenica pomeriggio (buona fortuna: è più o meno come quando il tipo che mi piaceva mi ha detto di andare a casa sua il giorno di Natale, per portargli il regalo, peccato che lui non ci fosse e che mi abbia aperto la mamma, che presumo mi avrebbe volentieri sgozzato e seppellita nel frutteto), nel mese di gennaio, sai che romantico congelarsi la lingua con una crema alla stracciatella mentre tu vorresti che ne so, un dannato bacio? Che tizio rincoglionito che ti piace, ma dai!

 

Le domeniche sono diventate una saporita pausa dal mondo all’epoca dell’università, o comunque dopo il diploma, visto e considerato che io ho anche preso un anno sabbatico, condito con domeniche atroci sempre per un tizio, uno di quelli che la vostra esistenza ce l’ha bene in mente per cinque giorni la settimana, ma il sabato non esce perché la domenica VA AL CAMPO. A GIOCARE. E NON STO PARLANDO DI TIZI FIDANZATI CON LA SERIE A.

 

La domenica non mi alzo alle cinque e mezza del mattino per andare a lavorare a studiare un po’ prima di prepararmi. Mi alzo un paio d’ore più tardi, faccio colazione con calma, leggo qualche rivista, e nel pomeriggio studio. La mattina mi dedico ai libri solo se so di avere impegni importanti nel pomeriggio e alla sera, o se gli esami da preparare sono più di uno. Insomma, la domenica me la prendo con calma, anche se continuano ad essercene che proprio eliminerei dal calendario!

 

Voi la domenica cosa fate?

Se qualcuno mi …

Se qualcuno mi chiedesse qual è la città che odio di più risponderei Catania. E darei la stessa risposta se mi chiedesse quale città amo di più.

Melissa P., L’odore del tuo respiro, Fazi Editore, 2005

Una frase che mi sono trascinata nella testa, tra un tramezzino al tonno e un messaggio che non arrivava mai, per tutta l’adolescenza. Ho letto questo libro nell’ottobre del 2007, l’avevo comprato insieme a Cento Colpi Di Spazzola Prima di Andare A Dormire, in una grandissima e vecchia libreria di Lanusei, la città di mio padre, dove ero in viaggio insieme a lui e mia madre.
L’ho comprato per tanti motivi. Il primo motivo è che avevo quattordici anni, ero innamorata, attratta, ossessionata, e volevo leggere testi che mi stimolassero ancora di più, avevo bisogno di creatività, fantasia, una scossa che mi rigenerasse. Ma visto che il tipo a cui dedicavo inesauribili fesserie ancora non si era minimamente accorto della mia presenza sulla Terra (ottimo: avevo 14 anni e tutto sommato non rimpiango di non aver fatto le zozzerie al porto come, purtroppo, molte ragazzine fanno), mi rinchiudevo in camera e leggevo. Leggevo. Sognavo. Fantasticavo.

Ma fuori dal senso, dalla tipologia, dalla trama cucita addosso a quelle pagine che profumavano veramente di libro, di letteratura, come non c’è quasi più nelle odierne librerie, la mia mente ha estratto questa frase e se l’è tatuata permanentemente.
Quante volte me la sono ripetuta, sostituendo a Catania il nome della città -sì, adesso è città, allora era paesello-. La odiavo perchè non mi dava opportunità, le scuole erano piccole, senza futuro, indirizzi che non m’interessavano, il pomeriggio l’unica cosa che potevi fare era andare a bere una limonata nel bar del centro, ma attraversare la piazzetta davanti a una massa di delinquenti che ti guardano il culo era imbarazzante a 14 anni, le vecchiette commentavano senza scrupolo la minigonna, il jeans, le ballerine, i capelli, la matita, il lucidalabbra. E la cosa peggiore era che lo stesso facevano le coetanee dell’altra classe. Tutto questo all’ennesima potenza, visto che ci conoscevamo tutte. Il minimo è questo. Forse per il cognome, forse per fatti economici, forse per antipatia genetica, sentivo che tutti attorno a me, quasi tutti, mi detestavano. Mi ignoravano, mi snobbavano, mi criticavano. Al di fuori della mia cerchia di amici, un gruppetto elitario, non avevo nessuno. Nessuno.

Ma in fondo l’amavo quel paese, perchè mi venivano in mente le gite della domenica, in pineta, con la famiglia. I pomeriggi in campagna, le mattinate estive in spiaggia, i chiassosi intervalli a scuola spesi a cercare con gli occhi uno sguardo ricambiato, lo shopping nelle vie del centro, rientrare a casa con mille pacchetti. I viottoli stretti dove succedeva e succede di tutto, è lì che c’è la vita. Le notti a guardare il porto in silenzio. La passeggiata davanti al mare, la colazione in pasticceria una volta ogni tanto, l’appuntamento con gli amici in piazzetta.
Mi dispiace molto che non mi abbiano quasi mai fatta sentire del posto, perchè è qui che sono cresciuta, e non essermi mai sentita a casa ha fatto sì che dentro di me quella frase della Panarello creasse un intorpidirsi di sensazioni che prima avevo celato dietro una maschera di quattordicenne viziata che non aveva problemi. La serenità era a Lanusei.
Lì, quei tre giorni all’anno, riuscivo a sentirmi a casa.

Wake Me Up When September Ends

Buona domenica e buon inizio di Settembre a tutti. Come state passando questa domenica? Come avete reagito al fatto di dover strappare una pagina dal calendario stamattina? Consolatevi: io non ho un calendario, ad esempio.

Prima di tutto vi spiego, io ho un’allergia piuttosto forte al primo giorno di questo mese che è un po’ un adolescente irrequieto, né carne né pesce, fa ancora troppo caldo per sfoggiare le nuove felpe della Nike ma troppo freddo per dormire in soggiorno con l’aria condizionata, la sottoveste di Intimissimi immaginando che al vostro fianco ci sia il Dottor Stranamore di Grey’s Anatomy, Insomma, per dirla fra noi, che non si sappia in giro: fa un clima di merda a Settembre, specie dove abito io, in Baronia, in una cittadina intrappolata dentro qualche montagna blu e bianca e con le campane che suonano a festa tutto il giorno anche quando non c’è un cazzo da ridere, hai finito il sale e non vuoi uscire a comprarlo perchè i tuoi capelli sono unti, il gatto ha la dissenteria e non hai voglia di metterti le scarpe. Inoltre, a Settembre ti ritrovi sempre indeciso se mettere le ciabattine magenta che usavi per andare in spiaggia a Berchida o gli scarponi da trekking della gita in Trentino. Ho risolto il tutto portando le All Star dodici mesi l’anno, prendendo 27 volte il raffreddore ogni stagione e prima o poi avrò i piedi piatti. Comunque.

Per me Settembre significava l’inizio della scuola, quando ero bambina dunque piangevo perchè non volevo fare i compiti di matematica. A quindici anni quando dovevo andare alle superiori piangevo lo stesso perchè dovevo tornare a scuola e avrei guardato dodicenni fuori dal vialetto di casa che si slinguazzavano appassionatamente. Stupidi amori estivi.

Più di una volta mi sono svegliata il primo Settembre e ho premuto violentemente il naso sul cuscino, sperando di riaddormentarmi e risvegliarmi ad Ottobre, senza accorgermi che l’unica cosa che potevo ottenere, al limite, era un setto nasale da operare. Quando i Green Day, il mio gruppo preferito, cantava questa canzone, io mi truccavo come loro, mi vestivo come loro, NON cantavo come loro. Avevo dodici anni e non slinguazzavo nessuno, ma Settembre significava tornare a scuola e fare non solo i compiti di matematica, ma anche quelli di educazione musicale e antologia (le medie dei primi anni duemila…).

Se anche voi odiate Settembre come me, il vostro ragazzo è uno stronzo e non vi piacciono i Green Day, ascoltatevi 29 Settembre di Battisti, i fazzoletti sono nel primo cassetto a destra.