Questo testo non è integrale, sono state tagliate le parti ove appare la parentesi con i puntini di sospensione. Non si escludono cambiamenti per le versioni di futura pubblicazione; gli originali potrebbero essere letti dal vivo durante reading e presentazioni.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguita in questi quasi 10 anni da blogger: si sono alternati usi e stili di anno in anno, ma è arrivato il momento di cambiare. Prima però, un’ultima cosa…
Scrivo da quando avevo dodici anni. Significa, che a oggi che ne sto per compiere trenta, posso reputarmi un’autrice maggiorenne. La prima volta che sono salita su un palco ero troppo piccola e immatura sia per capire l’entità del concorso per cui mi stavano premiando sia per iniziare a pensare che quella potesse essere la mia strada. Per me era solo una vacanza a Roma.
Detto questo, in quasi diciotto anni di scrittura, non ho mai voluto leggere niente di mio. Ho sempre rifiutato e delegato gli altri a portare in scena i fatti miei, perché del resto di questo si parla. Che vengano occultati nomi, indirizzi, date, sempre della mia vita parlo: è la cosa che conosco meglio e non parlo mai, se non su commissione, di cose che non mi interessano o su cui non sono davvero formata.
Quest’estate ho pensato: smetto di scrivere; quello da dire l’ho detto, faccio altro, ho esaurito le parole. Resto qui in cassa tra gli ovetti Kinder e gli accendini, al massimo il mio compito è quello di non far finire la carta degli scontrini e le monete per il resto. […]
E questo era il mio obiettivo, smettere. Buttare carta, penna, cestinare persino il lavoro già in mano alla mia editor, volevo dimenticarmi chi ero e diventare un’altra.
L’ho pensato con tutta la determinazione che conoscevo. Mi ricordo che la prima bozza per “America” l’ho scritta nel parcheggio del supermercato, non erano nemmeno le 7, era venerdì 22 luglio. Ho scritto un paio di righe, tre o quattro versi, poi ho chiuso tutto perché me ne sono vergognata. Che cazzo fai, smettila. È finita, non c’è niente da scrivere, sei un’altra adesso.
Dimmi che cosa cade dalla tasca dei tuoi jeans (non è una domanda: è la bozza che ho scritto nel parcheggio). Dicono che dalle cose che uno tiene in tasca si capisce molto della persona che si ha davanti.
Io di te non sapevo un bel niente. Ti guardavo ma mi imponevo di smetterla, perché avevo paura. Oggi so che la maggior parte delle paure erano le mie. Di essere sbagliata, di sbagliare, e ancora di più avevo paura che fosse giusto perché io le cose giuste non le conosco e di ciò che non conosciamo abbiamo paura. Non ti ho mai detto niente di tutto questo; io mi limito a sentire, al massimo queste cose poi io le scrivo, sono sempre stata così. Io non ammetto mai niente. È tutto uno statico proiettarsi di cose immaginate, provate e forse rinnegate, talvolta sperate, le metti lì sulla carta e le lasci in pace, troveranno qualcuno da ossessionare, faranno da specchio alla vita degli altri. Io me ne sbarazzo sempre delle mie emozioni, non le ho mai sopportate.
Non ti ho mai detto niente di bello. […]
Dell’alba non me ne è mai importato niente. Quest’estate ne ho viste 49. Te le ho dedicate tutte, in silenzio, mentre guardavo fuori dal finestrino della macchina, e il cielo arancione faceva da sfondo alle chiome nere degli alberi. E avrei voluto scriverlo meglio di così. Il giorno che ho capito quale fosse la ragione trasmettevano Mediterraneo di Mango alla radio […]. Ho capito che tutte le parti di me che mi mancavano ce le avevi tu. […]
Non ho mai desiderato essere nessuna persona se non quella che si rifletteva nei tuoi occhi quando mi guardavi. Non aveva più importanza se i miei capelli fossero a posto, se il trucco mi fosse colato per il caldo. Non potevo chiedere altro se accanto c’eri tu. E sono difficile, sì, insopportabile. Sono orgogliosa, snob, viziata, gelosa, egoista e permalosa. Gelosa soprattutto: la mia gelosia è incontenibile, per quanto io metta freno alle mie smorfie e alle mie reazioni. Sono anche lunatica, me lo hai detto tu e io mi fido.
Sono questo e anche di peggio, però lascia che ti dica un’ultima cosa, un altro aggettivo, una cosa che sono stata con te. Felice. Mi sentivo in America ogni volta.
[…]
Ho un quaderno pieno di cose che vorrei dirti. […] ma adesso è tardi, non sono abituata a dire così tante cose, io vivo di metafore […] mi nascondo dietro paroloni e battute.
Chissà se sai perdonare le mie paure e i miei vani sforzi, quelli che mi hanno portata a sbagliare di più; la mia gelosia che mi rendeva silenziosa e distante, i miei complessi e le mie vanità.
E chissà perché il mondo, con te, era tutta un’altra storia.
Per me, l’America sei tu.