Tutta un’altra storia [America]

Questo testo non è integrale, sono state tagliate le parti ove appare la parentesi con i puntini di sospensione. Non si escludono cambiamenti per le versioni di futura pubblicazione; gli originali potrebbero essere letti dal vivo durante reading e presentazioni.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguita in questi quasi 10 anni da blogger: si sono alternati usi e stili di anno in anno, ma è arrivato il momento di cambiare. Prima però, un’ultima cosa…

Scrivo da quando avevo dodici anni. Significa, che a oggi che ne sto per compiere trenta, posso reputarmi un’autrice maggiorenne. La prima volta che sono salita su un palco ero troppo piccola e immatura sia per capire l’entità del concorso per cui mi stavano premiando sia per iniziare a pensare che quella potesse essere la mia strada. Per me era solo una vacanza a Roma.
Detto questo, in quasi diciotto anni di scrittura, non ho mai voluto leggere niente di mio. Ho sempre rifiutato e delegato gli altri a portare in scena i fatti miei, perché del resto di questo si parla. Che vengano occultati nomi, indirizzi, date, sempre della mia vita parlo: è la cosa che conosco meglio e non parlo mai, se non su commissione, di cose che non mi interessano o su cui non sono davvero formata.
Quest’estate ho pensato: smetto di scrivere; quello da dire l’ho detto, faccio altro, ho esaurito le parole. Resto qui in cassa tra gli ovetti Kinder e gli accendini, al massimo il mio compito è quello di non far finire la carta degli scontrini e le monete per il resto. […]
E questo era il mio obiettivo, smettere. Buttare carta, penna, cestinare persino il lavoro già in mano alla mia editor, volevo dimenticarmi chi ero e diventare un’altra.
L’ho pensato con tutta la determinazione che conoscevo. Mi ricordo che la prima bozza per “America” l’ho scritta nel parcheggio del supermercato, non erano nemmeno le 7, era venerdì 22 luglio. Ho scritto un paio di righe, tre o quattro versi, poi ho chiuso tutto perché me ne sono vergognata. Che cazzo fai, smettila. È finita, non c’è niente da scrivere, sei un’altra adesso.

Dimmi che cosa cade dalla tasca dei tuoi jeans (non è una domanda: è la bozza che ho scritto nel parcheggio). Dicono che dalle cose che uno tiene in tasca si capisce molto della persona che si ha davanti.
Io di te non sapevo un bel niente. Ti guardavo ma mi imponevo di smetterla, perché avevo paura. Oggi so che la maggior parte delle paure erano le mie. Di essere sbagliata, di sbagliare, e ancora di più avevo paura che fosse giusto perché io le cose giuste non le conosco e di ciò che non conosciamo abbiamo paura. Non ti ho mai detto niente di tutto questo; io mi limito a sentire, al massimo queste cose poi io le scrivo, sono sempre stata così. Io non ammetto mai niente. È tutto uno statico proiettarsi di cose immaginate, provate e forse rinnegate, talvolta sperate, le metti lì sulla carta e le lasci in pace, troveranno qualcuno da ossessionare, faranno da specchio alla vita degli altri. Io me ne sbarazzo sempre delle mie emozioni, non le ho mai sopportate.
Non ti ho mai detto niente di bello. […]
Dell’alba non me ne è mai importato niente. Quest’estate ne ho viste 49. Te le ho dedicate tutte, in silenzio, mentre guardavo fuori dal finestrino della macchina, e il cielo arancione faceva da sfondo alle chiome nere degli alberi. E avrei voluto scriverlo meglio di così. Il giorno che ho capito quale fosse la ragione trasmettevano Mediterraneo di Mango alla radio […]. Ho capito che tutte le parti di me che mi mancavano ce le avevi tu. […]
Non ho mai desiderato essere nessuna persona se non quella che si rifletteva nei tuoi occhi quando mi guardavi. Non aveva più importanza se i miei capelli fossero a posto, se il trucco mi fosse colato per il caldo. Non potevo chiedere altro se accanto c’eri tu. E sono difficile, sì, insopportabile. Sono orgogliosa, snob, viziata, gelosa, egoista e permalosa. Gelosa soprattutto: la mia gelosia è incontenibile, per quanto io metta freno alle mie smorfie e alle mie reazioni. Sono anche lunatica, me lo hai detto tu e io mi fido.
Sono questo e anche di peggio, però lascia che ti dica un’ultima cosa, un altro aggettivo, una cosa che sono stata con te. Felice. Mi sentivo in America ogni volta.
[…]
Ho un quaderno pieno di cose che vorrei dirti. […] ma adesso è tardi, non sono abituata a dire così tante cose, io vivo di metafore […] mi nascondo dietro paroloni e battute.
Chissà se sai perdonare le mie paure e i miei vani sforzi, quelli che mi hanno portata a sbagliare di più; la mia gelosia che mi rendeva silenziosa e distante, i miei complessi e le mie vanità.
E chissà perché il mondo, con te, era tutta un’altra storia.

Per me, l’America sei tu.

Scrivere: dai fischi alle pesche.

Ho iniziato a tredici anni. La firma, inizialmente, era per logica e per legge quella dei miei genitori.
Mi ricordo il giorno che il preside ha chiamato mia madre per dirle che avevo vinto. Ma vinto cosa? Signora, ma il concorso. Quale concorso, oddio! Signora non immagina quanto siamo felici è successo che bla bla bla.

Io quel giorno non ero a scuola perché odiavo andare a scuola e pur di saltare un solo giorno di scuola sarei stata disposta a fare qualsiasi cosa, avrei preferito, ripeto, correre scalza per tutta la 125 nel mese di luglio a mezzogiorno. Ero dei più bravi e lo sarei stata ancora di più senza frequenza obbligatoria, mi dicevo nei miei sogni. Per me andare a scuola significava più che altro subire i fischi e le risate dei compagni più grandi durante l’ora di educazione fisica, quando le classi spesso si univano e si correva tutti assieme in cerchio, attorno al campo. Se pioveva troppo e la palestra si allagava si faceva teoria e davanti alla tavola delle calorie, sul libro che ancora conservo, c’era sempre qualcuno che chiedeva quanto sarei sopravvissuta senza cibo visto che ero una maledetta cicciona.

La scrittura è diventato un ambito rifugio. Quando tornavo a casa, incoraggiata da coloro che mi riempivano di complimenti per quel grande successo anche se io ero davvero piccola -non di dimensioni ma di età-, mi rinchiudevo nella mia stanza e mi mettevo davanti al pc nuovo a scrivere per tutto il pomeriggio. La sera facevo i compiti di francese e matematica, l’amavo la matematica, anche se non la capivo. Assente Avere, Questa storia, Miraggio, Primavera, quante poesie sono nate su quello schermo, dettate dalle dita che inseguivano velocissime i tasti. Mi sembrava di volare quando i cavolacci miei e tutta quella tristezza che covavo dentro diventavano versi che poi facevano commuovere chi li leggeva, e me lo confidavano col cuore in mano, si raccontavano, chi leggeva poi era lui stesso a diventare protagonista di quegli scritti. “Sai, è successo anche a me”, iniziavano. Quanti rapporti sono nati così. Quante amicizie di una sera! Me lo chiedo ancora che volto hanno assunto quei ragazzini come me che ai concorsi aspettavano di salire sul palco, a Roma, davanti alle telecamere della Rai, dopo un viaggio di venti ore. Ci davamo coraggio e se chi presentava sbagliava la pronuncia del cognome ridevamo e facevamo il gesto di fregarsene alla malcapitata.
“Maria Luisa…”
“Veramente io mi chiamo Luisa Maria” correggeva lei, e noi tutti a ridere, dentro i nostri tredici anni che davanti a quelle telecamere e le luci accecanti dei fari ci facevano sentire adulti, in realtà sembravamo incredibilmente più piccoli dentro quel mondo.

Quando tornavo a casa respiravo ancora l’aria dei mille progetti che avevo voglia di iniziare. A tredici anni hai la certezza di avere abbastanza tempo davanti per fare tutto.
Ho continuato a scrivere, ma ho smesso di ingrassare e essere derisa dal mondo intero. Le mie poesie sono diventate più tristi. Più avevo fame, più la gente si complimentava. Scrivevo moltissimo, completavo racconti e poesie ogni giorno e la sera quando andavo a dormire sognavo il mio cognome sul dorso di un libro della prestigiosa Einaudi.

A 16 anni avevo trenta chili in meno, una fame da morire e una montagna di file word dentro una cartella nascosta del pc, ma il mio cognome abitava dentro antologie di tiratura scarsa, mi ero arresa all’idea di tentare la pubblicazione di quel romanzo scritto nell’estate di tre anni prima, lo odiavo e non lo sentivo più mio, ero tentata persino di cancellarlo, “…che tanto chi vuoi che lo trovi in una cartella nascosta e denominata con un codice lunghissimo? Se crepo, va pure perso. Un piatto di carbonara, ecco cosa vorrei adesso. Ma sono già a 480 calorie: domani mangio solo una pesca e finisco di scrivere quel saggio sul teatro.”

Gli anni sono passati, e anche tanti. Adesso la carbonara la mangio, e il mio cognome è scritto sul dorso dei libri. Ma il resto lo racconto in un altro post!

Le tante cose da fare includono sempre tutte quelle che scegliamo di non fare

Ogni sera scrivo sulla mia agenda le cose che mi impongo, almeno in teoria, di fare il giorno dopo.

La mattina, quando leggo, di solito preferirei attraversare l’Orientale Sarda scalza a piedi ogni pomeriggio di luglio pur di farne una soltanto. Le mattinate estive sono l’incrocio tra la via che ti fa scattare l’impulso di produttività e quello dove vorresti solo crogiolarti su un lettino davanti alla piscina dell’hotel dove soggiorni.

Siccome io vivo sì in Sardegna ma non soggiorno in un hotel a cinque stelle ma nel soggiorno di casa, talvolta in camera da letto e in estate soprattutto dentro la doccia insieme allo shampoo per la dermatite, forse è meglio che io mi dia da fare. Quel saggio su Starnone che ho in programma per il prossimo ottobre non si scrive da solo e io non ho letto nemmeno la metà dei libri in programma. E scommetto che la tesi non si scrive da sola soprattutto senza aver cercato il materiale indicatomi cortesemente quando ancora si aveva pazienza.

Oggi è stato diverso. Dovevo, per forza, occuparmi di questioni letterarie a me care e da me non delegabili per nessuna ragione. Una volta portate a termine, mi sono regalata il podcast di Melissa Panarello e una bottiglietta di tè verde senza zucchero, ho aperto WordPress e sto facendo insomma il massimo per portare a termine almeno QUALCUNA delle mille cose che ieri mi sono imposta per oggi. Fra queste, ci sono cose che sono certa non farò: non sono sicura che oggi riuscirò a finire di leggere Spavento, per quanto vorrei. E non riesco a rimanere sveglia a lungo come quando ero davvero molto più giovane, giusto ammetterlo e rinfacciarmi la perdita di lucidità.

Studiare: odio la mia facoltà. Lo dico.
Preparare questi ultimi esami mi sta mettendo a dura prova, complice un grave problema nel mio self, la segreteria ovviamente non mi risponde, come ogni volta quando propongo una questione urgente. Con quale spirito dovrei studiare se dal self non mi fanno prenotare all’esame che dovrei sostenere? Come? Non saprei davvero, ditemelo se riuscite che io ci provo a scavare a fondo nella mia ciccia per racimolare le ultime briciole di pazienza rimaste.

Tra le cose da fare, scritte o meno, ce ne sono sempre tante che scegliamo di non fare. Dovrei ad esempio fare una skincare costante: non ne ho le voglie, soprattutto in estate mi sento la pelle grassa dopo la crema, forse la dovrei cambiare, ho finito la protezione solare, ma chi se ne importa se ormai mezza vita la trascorro al pc a scrivere monologhi con la mia referente alla didattica. A chi importa della mia dannata skincare se io su Instagram faccio storie dove mi si vede il volto al massimo 3 volte l’anno? E a proposito: questo penalizza sul serio l’engagement e rischio di non vendere un cazzo, addio casa in Francia così, devo migliorare.

Me lo impongo, di fare più storie ripresa in viso o parlate: ma puntualmente, scelgo di non farlo.

La scarsa motivazione è una perdita di tempo

Ormai siamo a giugno e quindi inutile sottolineare che è passata già la prima metà dell’anno. Si avviava a conclusione il 2021 quando dopo uno studio ossessivo compulsivo ricevevo la mia certificazione del corso di fashion writing. L’ho detto un po’ in giro, non di certo per vantarmene visto la maggior parte non sapeva nemmeno di che cosa si trattasse. Chi lo sapeva invece, oppure chi lo ha scoperto dopo la mia fiera spiegazione, mi ha guardato la maggior parte delle volte con aria incredula, della seria: “ma che cazzo te ne fai”, come a dedurre che Siniscola non ha mica una filiale del giornale di Vogue.

Questo mi ha messo in crisi. Terribilmente demotivante, non ho mai aperto il sito a cui stavo lavorando la sera di capodanno mentre gli altri si ubriacavano, immaginando il mio futuro da lì a cinque anni. Non ambivo di certo a sottrarre lavoro ai migliori critici di moda. Scrivevo articoli semplici, non pubblicabili, per svago, per non perdere la mano. Non mi sono mai impegnata sino in fondo in questo progetto, nonostante la marea di soldi investiti, perché mi sono concentrata solo ed esclusivamente nel giudizio di coloro che non vi hanno creduto.

Questa è la colpa più grande che possiamo avere: annullare le cose che ci piacciono, smetterla di corrergli dietro, solo perché qualcuno non crede che noi abbiamo le capacità di parlare di un bikini e contemporaneamente riconoscere a distanza se quel vestito al mercatino di Lecce è poliestere o cotone 100%.

Io mi pento molto di tutto il tempo che ho perso. Spero di essermene accorta in tempo e di poter recuperare. Da oggi, lavorerò di nuovo a questo progetto per cui ho speso non soltanto soldi ma fantasie, speranze, energie. Positivissime, tra le altre cose.

Per prima cosa, devo togliermi questi pantaloni di Lilli e il Vagabondo.

L’ultima cosa che mi viene in mente

Fosse per me, non la farei mai. Mi iniziano a far male le braccia quando le alzo, non sopporto di rischiare l’ustione alle orecchie ogni tre giorni, non ho alcuna garanzia che la piega venga come dico io.

Anche in inverno, rendere lisci dei capelli ricci è qualcosa capace di rovinarmi la giornata dalla notte che la precede. Se vado a letto sapendo che la mattina alle otto e trenta dovrò stirarmi la testa per domare quella specie di cespuglio che la natura mi ha dato in dote, o non dormo o dormo, ma male e con l’ansia.

Non se ne parla di andare ogni settimana dalla parrucchiera. A me gli appuntamenti fissi fanno venire comunque l’ansia, e se so che il prossimo mercoledì ho appuntamento da Anna alle dieci e un quarto, sto con l’ansia dalla mezzanotte del giovedì precedente. Quando smetto di poter dire “ma va là, manca ancora una settimana!”.

Odio il tempo che impiego per uscire di casa con i capelli lisci. Lo odio immensamente e lo spenderei volentieri facendo mille altre cose, forse preferisco addirittura studiare diritto romano, e questo, credetemi, soprattutto se mi seguite dal 2014, è molto grave.

Riccia non mi piaccio, nemmeno un po’, divento nervosa, è come un’altra personalità. La me riccia è pazza, ha seri problemi, è peggio di una leonessa col ciclo e i debiti, insopportabile, credetemi, se mi incontrate per strada e non ho i capelli lisci lasciatemi perdere.

Eppure, oggi sono qui che scrivo queste cazzate per giustificare il fatto che non ho voglia di lisciare i capelli come se fosse una colpa. Come se mi fossi fatta un dispetto da sola, il che è quasi vero visto che sono triste quando non mi vedo come vorrei. Rimediare? Non lo so.

Eppure, lisciare i capelli con questo caldo, è l’ultima cosa al mondo che vorrei fare.

Chi va piano…Va davvero così lontano? E soprattutto, quando arriva?

Il primo anno di università per me è stato un casino totale. Tra lo studio ossessivo -allora avevo seri progetti in mente inerenti la mia facoltà-, il lavoro e le mie onnipresenti paranoie, mi sono ritrovata con grossi problemi di salute causati dallo stress e ho mollato tutto. In sostanza, ho rimesso i libri di diritto romano e di diritto dei trasporti sullo scaffale e dopo le varie visite mi sono regalata qualche mese di stop. Vacanze? Per niente.

Mi sono dedicata ad altro e non sono stati i mesi dove ho guadagnato meglio col mio lavoro di allora, ma soprattutto ero serena. Sognavo. Quando andavo a dormire ero super impegnata a visualizzarmi nella vita che avrei avuto, forse, dopo solo tre, quattro anni, se avessi continuato così. Super motivata, sono tornata all’università l’inverno dopo. L’anno più prolifico di tutta la mia carriera universitaria, dopo allora mai più un tale rendimento.

Negli ultimi tempi mi sono arenata. Arrivata gli ultimi esami, alla tesi, complici una ricerca del materiale pressoché inesistente e seri problemi col mio libretto, sono quasi un anno vittima del salto dell’appello. Arrivo a pochi giorni dall’esame che mi faccio prendere dall’ansia e allora mi cancello la prenotazione e corro a prepararne un altro, uno diverso, come se la differenza la facesse il contenuto della materia e non una serie di impedimenti che mi abitano dentro.

A giugno di quest’anno ho deciso di prendere uno stop. Volevo imitare le cure che mi sono regalata tanti anni fa, quando dopo la pausa ero ripartita conquistando voti eccellenti. Poi mi sono detta: ma cazzo, io compio 30 anni fra qualche mese.

Questa è la mia ultima estate da under 30. In colpa per questo numero, mi sono rimessa a organizzare la sessione degli ultimi esami, cercando a tutti i costi di anticiparne che avevo deciso di sostenere a ottobre non a settembre, non a luglio, ma mi stavo facendo pressioni per sostenerlo fra meno di 10 giorni. Sono ricaduta in un’ansia tremenda.

Seguo da molto tempo Alice Bush, la conoscerete. Se ancora non sapete chi è vi consiglio di cercare su Google il suo nome in primis, poi di partire a razzo con i suoi podcast, meglio se in ordine cronologico. Uno al giorno. Come se fossero la pastiglietta con dentro la B12 che vi ha consigliato il medico. Bicchiere d’acqua, auricolari, non importa se mentre correte per sfogarvi o mentre andate in macchina a fare la spesa al centro commerciale. Dicevo, mi sono sempre trovata bene con lei ma uno degli episodi che più mi ha colpita è stato quello ascoltato oggi.

In breve, non pensiamo di poter cambiare noi stessi completamente in una settimana, né agendo su più fronti in contemporanea per poi punirci con un grave senso di frustrazione. Si parte pezzo per pezzo. Perlustrate la carta delle cose che vorreste migliorare di voi e, come suggerisce Alice, percorrete una strada alla volta. Non potete raggiungere Roma e Milano nello stesso momento. Pensate invece a un viaggio per visitare le capitali italiane, e considerate Roma e Milano come parti integranti di tale progetto. Le visitate, una a una, e alla fine avrete completato il vostro elenco. Per farla ancora più semplice ho capito che difficilmente andrò lontano se voglio a tutti i costi aumentare una velocità non consentita dal mio motore, non posso contemporaneamente modificare tutte le aree della mia vita che non mi piacciono, spesso e soprattutto per incompatibilità delle varie cose.

Come posso pretendere di curare la mia salute se insulto il mio aspetto davanti allo specchio e continuo a stressarmi per esami che riesco a sostenere? Da cosa voglio partire? Non posso visitare ogni angolo del MIO mondo con la valigetta del pronto soccorso nello stesso istante.

Avrei voluto lavorare a un finale più complesso e illuminante per questo articolo ma penso possa essere considerato, appunto, parte di un qualcosa. Io oggi sono partita dalla cosa che più mi fa stare bene: scrivere. Certo, mi sono anche regalata due puntate della mia serie tv preferita e qualche grissino al sesamo. Spero di non riprendere in meno il diario degli esami, almeno stasera.

Una cosa per volta.

La gentilezza premia sempre?

Certamente che, nella maggior parte dei casi, risponderò di sì a questa domanda, pur sapendo che la verità è un’altra. Se al 90% essere gentili vi premia, esiste quella percentuale residua che vi farà sentire dei coglioni per periodi interi. Per quanto, i veri coglioni, sono quelli incapaci di ricambiare l’educazione che i vostri genitori vi hanno regalato. Se con le Barbie o con i colpi di ciabatta non è cosa da discutere in questa sede, per questioni soprattutto di spazio (non è vero, è che oggi non ho voglia).

Ne discutevo ieri pomeriggio, in relazione a un poco piacevole evento dell’ormai scorsa settimana dove, appunto, forse mi sono pentita di essere stata gentile. Esatto: pentita. Pensate la gravità. E la gravità non sta nel fatto che io abbia avuto due genitori capaci di educarmi e di farmi essere gentile anche con il letame venuto al mondo sotto forma di essere umano, con braccia, gambe, persino la lingua, sono quasi certa che avessero anche ginocchia, occhi e capelli. Un po’ crespi, ma li avevano, che ci volete fare, non tutti hanno in casa la GHD.

Bene, vi risparmio i particolari ma proprio per essere stata educata con chi non lo è, ho fatto io la figura della cogliona e da quel momento mi sento dentro un disagio che so essere il pentimento. Ripeto una frase riportata sul mio Instagram pochi giorni fa: se io porgo la mia mano e tu la ignori, quando dovrei essere io a crepare dal rancore, e invece sono qua che ti sto dando la mia cazzo di mano, bene forse sono i tuoi genitori che dovrebbero rivalutare il lavoro educativo che hanno fatto con te.

Io mi sarò anche pentita di non aver trasformato la mano che ho allungato in senso pacifico in un ceffone a 100 decibel che non so manco se sono molti in proporzione a quel che intendo adesso. Però ho la consapevolezza di essere nel giusto, forse è questo il mio premio? Non saprei; vorrei tornare indietro nel tempo e non essere stata sempre fessa, ma più menefreghista. Non essere stata sempre buona e accomodante. Non cercare sempre di dare la mano alla merda, che poi è un casino.

La gentilezza non premia sempre, ma essere educati ci premia umanamente. Di default, di base, a prescindere. Dopo magari sta a noi effettuare una selezione. Una cosa è certa: la prossima volta la mano me la tengo in tasca quando ci sono feci motorizzate in circolo.

Sistemarsi non significa per forza sposarsi, mettetevelo in testa.

Ultimamente me lo sono sentita dire numerose volte, almeno tante quante sono state le volte in cui ho rischiato di non poter mai più lavorare a questo blog causa inquinamento della fedina penale, ma per legittima difesa, aggiungo io. Ma in Italia si sa, il concetto di giustizia è relativo.

Anche tu dovresti sistemarsi. EH, NON PUOI CONTINUARE A VIVERE IN QUESTE CONDIZIONI. UNO PRIMA O POI SI DEVE DECIDERE A FARE IL GRANDE PASSO.

Bene, iniziamo oggi l’avvio di una premurosa campagna di assistenza verso le persone che come me non hanno intenzione di affidarsi al suicidio poiché non ancora coniugate alla veneranda età di 29 anni. Manco ne avessi 109, e beh, anche in quel caso lasciatemelo dire: fatevi gli stracazzi vostri.

Se per voi sistemarsi è l’unico sinonimo di andare a passeggiare per la navata centrale verso il prete con due papaveri in mano beh, per me e per molte altre persone il concetto è alquanto diverso. Ve lo spiego brevemente.

Lo sapete per noi cosa significa sistemarsi? Raggiungere quel momento in cui, poggiando la testa sul cuscino, riusciamo a respirare serenamente e a goderci gli ultimi istanti della giornata, a prescindere che questa sia stata bellissima o dimenticabile. Raggiungere quel momento dove il bilancio delle preoccupazioni e delle soddisfazioni riesce a spingere in favore di quella che è la serenità e la voglia di provarla.

Immagino che tra i miei lettori, se sono rimasti qui per nove anni con tutto quel che ho vissuto e raccontato, con tutte le cose di cui mi sono soprattutto lamentata, ci sia anche una reciproca empatia e una forma di rispetto che coincide del rispettare le scelte di vita dell’altro. Allora, molti di questi sapranno che gli ultimi dieci anni della mia vita non sono stati sempre in discesa. Ho avuto molte soddisfazioni lavorative, purtroppo messe in pausa nell’ultimo periodo a causa di covid, problemi di salute, momenti no e anche per gli sforzi impiegati nel passare gli ultimi esami universitari. L’ultima cosa a cui penso in questo periodo è quella di infilarmi un vestito bianco o color panna montata male e andare a leggere al microfono qualche verso, mentre due bambini ai lati lanciano i petali finti comprati dai cinesi. No, grazie. Non me ne può davvero fregar di meno, al momento. Sarò lieta di sedermi su una di quelle scomodissime panche, salvo la vostra festicciola non avvenga lo stesso giorno in cui si è organizzata l’Isola delle Storie a Gavoi, e di sorridervi dietro la mascherina con addosso il mio vestito di Zara, perché se permettete in Ralph Lauren investo per cose mie. Sarò davvero contenta di suonare il clacson come manco a Roma a mezzogiorno per urlare tramite trombe che una persona che conosco ha deciso di passeggiare di bianco di vestita da casa sia sino al prete mettendo qualche fiocco sulla macchina, e poi di mettermi a mangiare come se non ci fosse un domani, magari al tavolo con gente che mi chiede che lavoro faccio e perché non mi sono ancora laureata e che adesso dovrei pensare al mio, di matrimonio. Ma vaffanculo tu e il matrimonio. Ho un meraviglioso fidanzato con cui ci siamo accordati già dall’inizio: essere felici è la nostra promessa principale. Se mai un giorno dovessimo decidere di invitare il pranzo a cento persone allora vi manderemo una mail, ma per adesso siamo molto impegnati a organizzare i nostri viaggi, le uscite in barca, raccontarci le nostre giornate e sostenerci nei nostri progetti. Siamo felici. Devo concludere in fretta questo articolo perché dobbiamo, ad esempio, metterci d’accordo per decidere quando vogliamo andare a mangiare la carbonara più buona del mondo. E se permettete, con tutto il lavoraccio che facciamo, ce la meritiamo anche.

Il mio concetto di sistemarmi è diverso: lo vedo come un percorso, non soltanto un punto di arrivo. Per me sistemarmi è garantirmi la serenità, fatta di mille cose. Davvero è un discorso troppo ampio per racchiuderlo in un solo articolo. Mi chiedo: se la gente è così tanto soddisfatta, dove trova il tempo e il desiderio di correggere la vita altrui? Ma davvero non vi piace andare a farvi una passeggiata in pace ascoltando i Queen? O chi diavolo vi pare. Io quando mi rilasso ascolto di tutto, ultimamente Branduardi, ma non ho ancora le competenze legali per insegnarvi storia della musica e manco m’interessano, ho rimandato per la diciannovesima volta diritto romano figuriamoci se mi metto a strimpellare mentre discuto su matrimonio e libertà di pensiero.

Concludo questa prima sessione di polemiche sulla voce “sistemazione” con una breve spiegazione che racchiude quelle di tutti gli articoli che seguiranno su questo tema: sistemarsi non è sinonimo di matrimonio. Conosco persone single o anti-matrimonio che se la godono altamente e non mi sembrano meno sistemate di quelle che hanno la fede al dito. Che poi, a me gli anelli manco mi piacciono. Fatemi sapere se si può suggellare la propria unione scambiandoci un piatto di carbonara.

Un vero peccato: essere maleducati.

Io di cose strane ne ho viste nella mia vita. E sì, parto subito con questo attacco per non pensare al fatto che per tre giorni non ho scritto un piffero. Ma proverò a distrarvi con la storia dello struzzo nei prossimi giorni.

Dicevo: io di cose strane ne ho viste. E tante. Ho assistito a scene bizzarre, alcune divertenti e altre che se non altro dopo qualche anno sarebbero diventate degli aneddoti da raccontare a quelle cene a cui nessuno vuole andare ma dopo il terzo bicchiere di vino d’annata si finisce per trovare una complicità e un’intimità mai avute. Cene di classe? Io non credo.

Ci sono cose che mi stupiscono a prescindere. Ad esempio, la cattiveria ingiustificata e la maleducazione. Non parlo di antipatia a pelle: di fatto, persino nel mio caso che sono qui seduta scalza a scrivere questo articolo in un pc che non vuole passare a Windows 11 o come si dice, ne provo e non nego che è dal 1993 che auguro il cagotto a certe persone.
Ultimamente sono troppo impegnata a pensare alla casa in Francia per essere più costante in questa pratica, ma chi lo sa, magari qualche risultato l’ho inconsapevolmente ottenuto.

Il senso è: vi è mai capitato di sentirvi rispondere con una certa sgarbatezza da una persona con cui avete scarsa confidenza? A scanso di equivoci, sottolineo quindi, dove non intrattenete conversazioni comiche dove sovente vi sbellicate dalle risate? Vi svelo un segreto: o quella persona è incazzata perchè ha trovato una chat su Instagram del marito con un’altra strafiga o altrimenti non ce l’ha con tale presunta strafiga ma bensì con voi. Ve lo assicuro. Le state sulle palle raga, molto. Non vi può tollerare. Perché se non è capace di fare sfoggio della minima educazione impartita tra i 3 e gli 8 anni con uno sconosciuto allora beh è una persona maleducata, come le magliette sintetiche che ci ostiniamo a comprare per essere alla moda quindici giorni l’anno e avere foto per i social da qui al 2035.

La maleducazione passa anche per i gesti: se voi state per dare la mano a una persona e questa, volutamente e non perché lo ha distratta un SMS del modello di Dolce & Gabbana, del resto chi ti caga amo ma falla finita, comunque dicevo, se questa non vi da la sua cazzo di mano allora beh è una cafona che non teme nemmeno di apparire cafona, cioè essere cafona le crea proprio un senso di soddisfazione dentro, qui rientriamo nel patologico. Io al posto suo mi farei vedere da uno bravo, e non sto parlando del modello di Dolce & Gabbana.

Se alla vostra veneranda età, presumo abbiate superato l’età in cui eravate dei meri embrioni, non avete pietà e definite, usando quella parola che sto per scrivere, grassa, una persona senza conoscere se questa persona sta o meno lottando per risolvere magari un problema più grande della vostra ignoranza (ma la vedo difficile: la medicina ha fatto passi avanti negli ultimi tre secoli, invece l’ignoranza no), bene, siete delle persone cattive. Squallide. Anche qui rientriamo nel patologico, ma presumo bisognerebbe cambiare reparto.

Tutti compiamo di certo un numero variabile di errori di cui, si spera, ci pentiamo a volte persino in giornata. Si spera, ripeto, che si abbia quindi anche il quoziente intellettivo necessario per pronunciare le proprie scuse e fare, almeno, la figura del cafone in guarigione. Tutti, ripeto ancora, abbiamo antipatie. Eppure io la mia educazione la sfrutto anche con i soggetti a cui spedisco gli auguri di buona cacca. Si chiama civiltà, forse. Educazione, in gergo.

Il vero peccato è che l’educazione e la bontà, in tutti questi milioni di anni, non siano ancora insite negli animi.

Riuscirò a scrivere 5 articoli la settimana? Nuova sfida salva-il-blog!

Ultimamente è una cosa che mi sono imposta e, aggiungo, quale sfida migliore di questa? Ma veniamo al dunque, è sabato e l’ultima cosa che potrebbe apportare benefici a questo blog in sofferenza da tempo è un post noioso e capace di generare ulteriori dubbi esistenziali.

Mi sono imposta di scrivere un post al giorno, per almeno 5 giorni la settimana. Questa è la prima volta che lo dico in modo “ufficiale”, non l’ho ancora segnato nemmeno sull’app per acquisire abitudini e raggiungere obiettivi random che ho scaricato l’altro ieri. Però, la skincare me la sono fatta.

Non so proprio come racimolare le idee per questa sfida che intendevo far durare almeno sino all’autunno, data approssimativa in cui deciderò quale sarà il destino di questo spazio, ormai di 9 anni! Potrei parlare di qualsiasi cosa, del resto chi è multipod come me e molti dei miei lettori, ne sono certa perchè altrimenti che cosa si sarebbero iscritti a fare qui, lo sa bene che le scelte non sono il nostro forte. Ragion per cui sono certa che arriverò al 31 ottobre senza aver fatto morire o tornare in vita Giorni di Plastica, anzi, rimarrà peggio ancora in un limbo, esistente ma privo di aggiornamenti. Il peggio del peggio, occupare uno spazio nel web senza motivo, insomma come quando con la macchina posteggi in modo da prenderti due parcheggi e i tipi che passano ti maledicono in dialetto. Io almeno me lo immagino così, ma non ho la patente e non conosco il dialetto. Pura fantascienza, fantasia, paturnie? Io non credo!

Siamo arrivati quasi a metà articolo e già questo teoricamente basterebbe a incoraggiare il mio neurone che per oggi ho già fatto una delle diecimila cose che mi ero imposta. Mi consolo e giustifico dicendo che la giornata ha solo 24 ore e 8 di queste le passo a dormire per colpa della melatonina dell’Eurospin, insomma che ci posso fare io se mi piace Spotify, se ho una dipendenza da Pinterest e controllo compulsivamente la mail (ne ho mandate 5 urgenti questi ultimi giorni ma mi hanno ghostato tutti)? Ho forse la colpa di usare questa roba che qualcuno ha inventato per diventare ricco? No. Anzi, per quanto uso questi cosi, gli amministrativi delegati dovrebbero mandarmi minimo una lettera raccomandata con dei ringraziamenti in cinque lingue diverse, sia mai che abbia dimenticato la mia dopo il quarto prosecco, del resto è periodo di cerimonie.

Ma, giusto per citare e farvi leggere il post di ieri, riprenderci la mano è dura. Ho quasi sterminato il blog ignorandolo per mesi, anzi, cosa pretendo, dovrei persino complimentarmi con me stessa per aver scritto un articolo mentre il mio cappuccino fatto in casa con chissà quale diavoleria chimica in barattolo non è ancora freddo o, peggio, finito. Piuttosto: Mi sono rimasti solo 4 cornetti integrali. Non penso di poter completare la sfida in questo modo. Devo fare spesa di colazioni.

Dopo tutte queste righe, comincio a prenderci gusto. O meglio: a riprenderci la mano. Bella la vita con gli ad, secondo me, ti butti sul letto col Nescafè e il cornetto sottomarca e per scrivere due merdate ti arriva a casa, in ordine: un pacco di Sephora con dentro 15 detergenti diversi, 36 rossetti, la scimmia di Pippi Calzelunghe e un buono da 100 euro da regalare ai fan; una borsa di Versace che ti devi mettere per fare la spesa alla Coop e qualche pirla deve pure fotografarti mentre scegli i cereali; Federico Fashion Style in persona pronto a tingerti i capelli con la Nutella; un Moet che non ho manco voglia di cercare l’accento, figuriamoci.

Però chissà, mi piacerebbe anche fare la editor e migliorare i testi degli altri, che se non pubblicano i miei almeno poi finiscono sugli scaffali libri che ho già letto e dove gli autori mi infileranno tra i ringraziamenti, mi farò un piantino e poi andrò a cena fuori a mangiarmi delle pennette alle verdure che hanno davvero le verdure e non soltanto l’impasto aromatizzato agli spinaci fritti.

Per ora, rimango solo una mini-blogger che scrive ciò che le passa per la testa, 5 volte la settimana salvo abbandoni improvvisi di questa sfida.

A proposito, quello schifo di cappuccino si è raffreddato.